Dove mi inceppo
- mihaelaclaudiapusc
- 4 giorni fa
- Tempo di lettura: 11 min
Un esercizio di lucidità

Ci sono verità che non scopri in un attimo. Non ti svegli un giorno dicendo: “adesso ho capito tutto”.
Arrivano lentamente. Sono sensazioni che ti accompagnano per anni, quasi in silenzio, finché un giorno ti fermi — e ti rendi conto che erano sempre state lì.
Una di queste verità, per me, è questa: ognuno di noi ha delle parti difficili, dei lati d’ombra, dei modi di essere che non ci piacciono del tutto. E non sono errori. Non sono “difetti” nel senso cattivo del termine. Sono punti delicati, fragilità, meccanismi di difesa, abitudini interiori che abbiamo sviluppato per sopravvivere, per adattarci, per proteggerci.
E la cosa più sorprendente è che spesso, proprio lì — in quello che ci imbarazza, che vorremmo nascondere, che ci fa sentire “sbagliati” — c’è una chiave. Una porta. Un messaggio che, se ascoltato bene, può farci crescere davvero.
Per questo oggi non voglio mettermi nella posizione di chi dà consigli dall’alto, né di chi si racconta per fare “spettacolo”. Voglio fare una cosa più semplice e più difficile: mostrarmi. Dire: “Ecco dove faccio fatica”. Perché credo che quando qualcuno lo fa con sincerità, crea uno spazio in cui anche gli altri possono respirare e riconoscersi.
Questi sono i miei cinque lati d’ombra. E mentre li leggi, magari succederà una cosa: in uno di questi, ti ritroverai anche tu. E capirai che non sei solo, che non c’è niente di rotto in te: siamo solo esseri umani che provano a capirsi un po’ meglio.
1) Ho paura di invecchiare (e non è solo una questione estetica)
Lo dico subito, senza girarci intorno: ho paura di invecchiare. E sì, è una cosa universale… ma quasi nessuno la dice davvero ad alta voce.
E quando lo dico, non parlo soltanto delle rughe o della pelle che cambia. Non parlo solo delle foto in cui inizi a notare dettagli che prima non esistevano. Quella è la parte esterna, visibile. La mia paura è più sottile e più profonda: ho paura di vedere il tempo passare mentre dentro mi sento ancora la stessa. E questa frizione tra “come mi sento” e “quanto tempo è passato” a volte è quasi dolorosa.
Dentro di me c’è spesso una sensazione di rincorsa: come se io fossi “in ritardo” rispetto alla mia età. Come se esistesse un grande calendario invisibile che mi confronta con gli altri e mi sussurra: “Dovresti essere più avanti”. E qui arriva la parte più vera: non è la vecchiaia che mi spaventa… è l’idea di non fare in tempo. Non fare in tempo a diventare chi voglio diventare. Non fare in tempo a costruire quella versione di me che sento possibile, inevitabile, destinata.
Poi certo: c’è anche la dimensione estetica. Sono cresciuta in una società che premia la bellezza e la mette al centro di tutto. È inevitabile che questo lasci segni: insicurezze, pensieri ricorrenti, un dialogo interno che ogni tanto diventa duro. Lo ammetto: negli anni ho fatto anche qualche ritocchino, niente di eccessivo, ma abbastanza per ricordarmi una cosa: la bellezza è un gioco fragile. E quando qualcosa è fragile, ti costringe a inseguirla.
Per molto tempo ho pensato che la soluzione fosse “preservare”: correggere, aggiustare, sistemare. Ma crescendo ho capito che non esiste ritocco che compensi una sensazione interna: quella di restare indietro. La partita vera non si gioca davanti allo specchio: si gioca dentro.
E qui la paura diventa una domanda onesta: come faccio a fare pace con il tempo? Sto imparando — non sempre bene, ma ci provo — che la sfida non è fermare gli anni, ma smettere di misurare la mia vita con il metro degli altri. E sto imparando che alcune persone diventano più belle a quarant’anni che a venti non per miracolo estetico, ma per sicurezza, presenza, profondità.
E voglio dirlo chiaramente: non è superficiale avere paura. È umano. Ma quella paura non deve immobilizzarci. Può diventare una sveglia: il segnale che è il momento di costruire qualcosa dentro di noi che il tempo non può portar via.
2) Faccio fatica a convivere con qualcuno (e mi sono stancata di sentirmi “difettosa”)
Seconda confessione: faccio fatica a convivere con qualcuno.
Ci ho messo anni per capirlo davvero e, soprattutto, per accettarlo senza sentirmi sbagliata. Perché la convivenza, nella testa di tanti, è una prova di maturità. Come se amare davvero volesse dire “stare sempre insieme”, fondere i ritmi, condividere ogni spazio, adattarsi.
E invece io ho scoperto una verità molto personale: la mia mente ha bisogno di spazio. Silenzio. Aria. Tempo per pensare, creare, immaginare. Non perché io non ami la presenza degli altri — anzi — ma perché la presenza degli altri, anche quando è gentile e rispettosa, spesso mi consuma.
Quando ho qualcuno accanto, sento che una parte di me entra in modalità “attenzione”. È come se non riuscissi a rilassarmi del tutto. E a lungo andare questa contrazione mi stanca, mi drena, mi rende meno me.
Per me la casa non è solo uno spazio fisico: è uno spazio mentale. È dove le idee nascono, dove i pensieri si aprono, dove io mi espando. E quando c’è qualcuno con me, spesso questo processo si inceppa.
Per anni ho pensato fosse un difetto: immaturità, egoismo, incapacità di amare. Poi ho capito che esistono persone — molte più di quanto pensassi — che amano profondamente ma lo fanno meglio da sole. Non sono anaffettive, non sono fredde, non sono egoiste: sono fatte in un altro modo. Persone che per amare davvero hanno bisogno di un luogo dove respirare e rientrare in sé stesse.
E qui voglio essere molto chiara, perché è una cosa che può essere fraintesa: io non sto dicendo “non voglio nessuno”. Sto dicendo una cosa più sottile: non voglio perdermi per far spazio a qualcuno. Non voglio che l’amore diventi invasione totale, presenza obbligatoria, rinuncia alla mia natura.
Se un giorno avrò una relazione seria, forse sì, potrei convivere. Ma solo con elasticità: giorni insieme e giorni da sola; una casa condivisa ma anche una stanza o un rifugio solo mio; weekend pieni e weekend in cui sparisco nel silenzio. Vicinanza sì, ma una vicinanza respirabile.
Perché per me l’amore non è stare incollati. È scegliere la presenza dell’altro senza rinunciare alla mia. E dirlo, finalmente, è liberatorio. Per me e — magari — anche per chi si è sempre sentito strano per lo stesso motivo.
3) Sono rigida nelle relazioni e nell’intimità (e ora capisco da dove viene)
Terzo lato d’ombra: nelle relazioni sono rigida.
E attenzione: non rigida nel senso “fredda”. Rigida nelle strutture. Nelle etichette. Nei tempi. Nelle regole non dette che però nella mia testa diventano leggi. Mi piace sapere cosa siamo, come definirci, in quale scatola metterci. Mi piace che tutto abbia un ordine: prima questo, poi quello, poi quell’altro.
Quando qualcosa esce dallo schema, io perdo equilibrio. E lo stesso vale per l’intimità: per me non è una cosa che “succede”. È una cosa che si struttura. Deve esserci un tempo giusto, un contesto giusto, una cornice giusta. Non ho quella spontaneità del “vediamo cosa succede”. Io ho bisogno di capire prima, mettere tutto in fila, dare un senso, una direzione, una logica.
Per anni mi sono giudicata duramente per questo. Poi ho iniziato a guardare più indietro, e lì ho capito da dove arriva davvero questa rigidità.
Quando sono arrivata in Italia avevo diciott’anni. Ed era un periodo in cui — inutile negarlo — le ragazze dell’Est venivano viste in un certo modo: leggere, disponibili, associate a un immaginario che non mi apparteneva minimamente. E io, giovane, appena arrivata, senza rete, ho sentito quell’etichetta addosso ancora prima di presentarmi.
E allora ho fatto una cosa: ho costruito intorno a me una fortezza. Serietà, disciplina, studio, compostezza. Come se dovessi dimostrare continuamente: “Io non sono come pensate. Io sono diversa. Sono seria.”
E sì, io ho studiato perché mi piace davvero — liceo in Romania, laurea in Italia, master a Londra, corsi, counseling — ma dentro c’era anche un’altra spinta: dimostrare. Dimostrare che valevo. Dimostrare che ero il contrario dello stereotipo.
Quella tensione è diventata una seconda pelle, una corazza identitaria. E come ogni corazza: protegge, ma irrigidisce. La mia immagine, le mie scelte, la mia intimità… tutto è diventato controllato, corretto, impeccabile. Nulla fuori posto. Nulla che potesse essere interpretato male.
Col tempo quella protezione è diventata abitudine. Poi automatismo. Poi parte di me. E a un certo punto non sapevo più dove finiva la ragazza che si difendeva e dove iniziava la donna che voleva vivere davvero.
E oggi, a quasi quarant’anni, mi faccio una domanda che mi sposta dentro: “Come sarei, se nessuno mi guardasse? Se non dovessi dimostrare niente a nessuno?”
Non lo so ancora del tutto. Sto ancora capendo chi sono io nelle relazioni. Quanto di quella rigidità è davvero mia e quanto è un’eco di una battaglia vecchia. Ma sento che più cresco, meno mi riconosco in quella versione rigida. Qualcosa in me vuole essere più libera, più fluida, più presente.
Non significa perdere valori o dignità (quelli non si toccano). Significa vivere con meno paura e più autenticità. A volte una relazione non ha bisogno di un nome: ha bisogno di respiro. A volte l’intimità non ha bisogno di un piano: ha bisogno di sentirsi.
E lo sto imparando piano piano: mollare un millimetro alla volta, fidarmi, lasciarmi sorprendere. Perché non tutto ciò che esce dal controllo è pericoloso. Anzi: a volte è proprio lì che succede il bello.
4) Non sono una persona molto generosa (e ora capisco perché)
Questa mi costa ammetterla. Ma è la verità: non sono una persona molto generosa, almeno non nelle cose materiali.
E voglio dirlo con precisione, perché anche qui è facile fraintendere: non è perché io sia cattiva o egoista. È perché vengo da un’infanzia in cui ogni oggetto era raro, prezioso, quasi sacro.
I miei genitori non mi compravano quasi nulla. E non era povertà, non era mancanza di soldi. Lavoravano entrambi, mio padre era nell’esercito, il cibo non mancava. Era un altro tipo di mancanza: non capivano il valore emotivo delle cose materiali.
Non capivano che un bambino ha bisogno di più di un paio di pantaloni (avevo veramente solo un paio). Non capivano che vedere gli altri bambini con due, tre cambi e noi sempre con lo stesso… faceva male. Non capivano che desiderare un giocattolo non è capriccio: è crescere come gli altri. Non capivano che volere un biscotto, una caramella, un vestitino in più… era volersi sentire normali.
Io e mio fratello lo sentivamo benissimo: avevamo meno degli altri, e non era giusto — proprio perché i soldi c’erano. Mancava sensibilità. Mancava dolcezza. Mancava cura.
Così ho iniziato a crescere con una mentalità: “tieni tutto, conserva tutto, proteggi tutto”. Ricordo quando volevo una Barbie come tutte le bambine. Non potevo chiederla: non sarebbe arrivata. Così mettevo da parte ogni moneta per mesi. E quando finalmente l’ho comprata era come comprare un pezzo di mondo che fino a quel momento era stato negato.
Lo stesso a Natale: mia mamma non amava decorare l’albero, non lo sentiva importante. Io invece sì. E a otto, nove anni mettevo da parte soldi tutto l’anno per comprare da sola palline, lucine, nastri. Mi ricordo la sensazione: come se stessi creando una festa per me, da me.
Questo ti modella. Ti forma. Ti insegna che le cose non arrivano. Che se lasci andare, non torna più. E io quella paura me la sono portata dietro per tutta la vita: per molto tempo ho fatto fatica a dare via qualsiasi cosa — vestiti vecchi di quindici anni, oggetti inutilizzati — e facevo fatica a donare soldi, perfino a buttare ciò che non serviva più.
Perché dentro c’era ancora quella bambina che diceva:“Tienilo. Potrebbe servirti. Non lo ritroverai mai più.”
Poi un giorno ho iniziato a cambiare. Non perché fosse facile, ma perché era necessario. Ricordo la prima grande donazione di vestiti: sacchi enormi davanti a me, pesanti. E ogni capo era un pezzo di vita a cui avevo tenuto troppo. Mi tremavano le mani. Mi sentivo come se stessi lasciando andare una parte di me.
E invece no. Non perdevo niente. Stavo respirando.
Poi è arrivato l’incidente del mio amico in America, la raccolta fondi… e quella parte di me che aveva sempre trattenuto, stavolta non ha trattenuto niente. Ho donato. E ho sentito qualcosa sciogliersi dentro. Un nodo tagliato.
E lì ho capito una frase che mi porto dietro: la generosità non è solo un gesto. È una guarigione.
Quando dono, non sto solo aiutando qualcuno. Sto liberando una parte di me incastrata nel passato. E sì, sto ancora imparando: a volte dono con leggerezza, a volte ricado nel vecchio schema del “e se poi mi serve?”. È un dialogo continuo tra la bambina che sono stata e la donna che sono adesso.
E lentamente sto iniziando a dare più voce alla seconda. Perché la sicurezza non sta nelle cose. Sta nella donna che sono diventata.
5) La mia intelligenza, a volte, mi isola dagli altri
Questo punto è delicato perché può sembrare presunzione. Ma non lo è. È semplicemente una dinamica che vivo: la mia intelligenza e la mia fame di conoscenza, a volte, mi isolano.
Io studio molto. Ho sempre studiato molto. A volte per sentirmi all’altezza, per fare buona impressione, per dimostrare qualcosa. Ma soprattutto perché mi piace: mi nutre, mi accende, mi fa sentire viva.
A me piace la scuola persino adesso: seguo tedesco, studio cinese, ho sempre un libro sul comodino, un documentario da vedere, un’idea da capire. Per me conoscere non è un hobby: è il mio modo di respirare.
E io amo circondarmi di persone così: curiose, sveglie, colte, con un cervello acceso. Quelle persone che quando parlano ti fanno venire voglia di aprire un libro, non Instagram. Quelle che ti spostano un po’ più avanti solo stando sedute accanto a te.
Il problema è che quando parlo con qualcuno che non parla la mia lingua — non la lingua reale, ma quella mentale — io lo sento subito. Sento quando non segue, quando non afferra le sfumature, quando la conversazione resta sulla superficie. E lì io mi blocco. Mi spengo. Perdo interesse quasi subito.
Non mi piace ammetterlo, ma succede. Automaticamente. Perché io dalle persone voglio imparare. Voglio crescere. Voglio confrontarmi, essere messa alla prova, scoprire cose nuove. E quando sento che questo non succede, una parte di me pensa: “Sto perdendo tempo”. Minuti preziosi in cui potrei studiare, creare, lavorare ai miei progetti, crescere davvero.
E non so nemmeno se sia giusto o sbagliato: so solo che è vero.
Ma poi arriva l’altra verità, quella che mi sta aiutando a maturare: non tutte le conversazioni devono essere profonde. Non tutte devono produrre un risultato. Non tutte devono smuovere il mondo.
Razionalmente lo so. Emotivamente faccio fatica. Perché il mio cervello è spesso in modalità “impara, migliora, progredisci”. E quando entro in una conversazione leggera, qualcosa in me la svaluta subito.
Eppure non è vero che la leggerezza è inutile. A volte una conversazione semplice con una persona diversa da te può aprire qualcosa: può farti uscire da te stesso, può farti respirare, può ricordarti che non si vive solo nei concetti ma anche nei momenti, nei sorrisi, nelle parole normali.
Sto imparando a non dividere le persone in “nutrienti” e “non nutrienti”. Sto imparando a non giudicare subito, a non scappare mentalmente se sento che non siamo sullo stesso livello intellettuale. Sto imparando che si può godere di uno scambio anche se non ti cambia la vita.
E forse la frase più importante di tutte è questa: la profondità è bellissima… ma la leggerezza è una forma di intelligenza anche lei.
Conclusione: i lati d’ombra non sono muri, sono porte
Mettendo in ordine questi cinque lati d’ombra, mi sono resa conto di una cosa semplice ma enorme: non c’è niente di più liberatorio che smettere di nasconderci da noi stessi.
Siamo bravissimi a dare consigli, molto meno bravi a guardarci allo specchio e dire:“Ok. Questo sono io. Anche con le parti che non mi piacciono.”
Per anni ho pensato che migliorarsi volesse dire aggiungere: nuove abitudini, nuove competenze, nuove idee. Invece oggi credo che spesso migliorarsi inizi dal contrario: dal togliere. Togliere ciò che non ci serve più. Togliere rigidità ereditate. Togliere paure scambiate per identità. E quando togli… quello che rimane è più vero.
Guardare i propri lati d’ombra non è debolezza: è coraggio. È dire: “Io non sono perfetto, ma sono sveglio. Sono onesto. E sto lavorando su di me.”
E forse la frase che voglio lasciarti (e lasciarvi) è questa: i nostri lati d’ombra non sono muri. Sono porte. Oltre quella porta c’è la versione di noi che stiamo cercando da anni.
Non si arriva lì in un giorno, e va bene così. Il lavoro su di sé non è una corsa: è un cammino. Un passo alla volta. E se questo articolo ti ha dato anche solo un pensiero nuovo, un piccolo movimento dentro, allora è già abbastanza.
Perché il cambiamento vero inizia sempre così: da una minuscola crepa dove finalmente entra la luce.




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